«Chiesa in ritardo, la gente non ci capisce» Don Severino Vareschi: «Linguaggio e struttura sono rimasti quelli del passato» LA VISITA DEL DALAI LAMA
di Elisabetta Brunelli
TRENTO. L'uomo occidentale cerca nel buddismo risposte che non trova altrove? La Chiesa ha le sue responsabilità: deve trovare un linguaggio più vicino alla sensibilità attuale, categorie culturali nuove e un assetto istituzionale meno anacronistico. Don Severino Vareschi, docente del Seminario diocesano dov'è anche preside della Scuola di filosofia e teologia, riflette sulla questione del Dalai Lama a Trento e sull'appello all'evangelizzazione lanciato a San Vigilio dal cardinale Marco Cè. Don Vareschi, all'indomani del culmine delle celebrazioni per il XVI centenario di San Vigilio, è arrivato a Trento il Dalai Lama. È una coincidenza scomoda, un segno dei tempi o un'opportunità? «Un segno dei tempi, una coincidenza che va benissimo perché interpella la tradizione cristiana, la chiama a sentirsi compagna di strada. Tutte quelle che sono religioni "per l'uomo" devono parlarsi: il Papa ce lo insegna. Ciò non significa indifferentismo per la propria tradizione religiosa, ma un impegno comune al servizio dell'uomo». Con il Concilio Vaticano II sono cambiati molto i rapporti fra le diverse religioni. Si è passati dal "sospetto" al "rispetto", come ha sottolineato ieri su Alto Adige il direttore dell'Itc-isr Autiero. Eppure restano dei punti inconciliabili. Pensiamo soltanto alla differenza fra cristianesimo e buddismo sul piano teologico e soteriologico. Come sviluppare il dialogo mantenendo l'identità? «Non dobbiamo aver paura a incrociare altre tradizioni religiose. Serve un impegno sui valori umani e sulla pace. Su questi punti occorre un impegno comune se non altro come segno di pentimento per tutte le volte che le rispettive tradizioni religiose sono state fattori di divisioni, disprezzo e anche di guerre». Crede che il fascino che il buddismo esercita sull'uomo occidentale risponda a degli effettivi vuoti spirituali e valoriali o sia semplicemente una moda legata alla conversione di alcuni personaggi dello sport e dello spettacolo? «Tutte e due le cose. La Chiesa, comunque, ha le sue responsabilità. Deve interrogarsi sul fatto che forse sa troppo poco venire incontro alla domanda di spiritualità e questo perché offre un cristianesimo molto condizionato dal passato, quasi una sommatoria dell'eredità del passato. Dobbiamo trovare forme nuove (parlo di categorie culturali come di aspetti istituzionali) per dare risposte al bisogno di spiritualità e alle domande dell'uomo di oggi». Nel buddismo non c'è alcun riferimento a Dio, tutto è incentrato sull'uomo, la sua interiorità, le sue capacità di meditazione. Queste caratteristiche incontrano l'interesse dell'uomo occidentale perché non conosce il principio della libertà cristiana o perché lo rifiuta? «Perché lo rifiuta ritenendolo faticoso, difficile. È vero, la proposta cristiana è chiamata alla realizzazione, alla vita piena, alla libertà, ma per arrivarci si deve lottare contro il peccato. Pensiamo al discorso della montagna. Cristo indica la "via stretta", che è la via della Pasqua (mistero di morte e vita)». Il cardinale Cè nell'omelia tenuta in cattedrale ha parlato di «deriva secolarista, che giunge a configurarsi come apostasia silenziosa nell'Europa e nell'Occidente» e di «delirio di autosufficienza». Parole forti che indicano grandi sfide? «Certamente il cardinale non ha usato queste parole alla leggera, anche se bisogna capire cosa intendiamo per apostasia. I sociologi dicono che non è la fine della religione, della religiosità. Una delle nostre sfide credo sia cercare di parlare un linguaggio più appropriato, più conforme alla sensibilità attuale. Ci sono realtà del cristianesimo che se dette con parole del passato vengono colte con freddezza. Il problema di apostasia è da guardare in faccia. L'uomo di oggi non ha più una risorsa spirituale e la tradizione cristiana sembra non offrirla. Non credo sia consapevole allontanamento, ma difficoltà a coglierne la ricchezza, incapacità di trovare risposte nella religione cristiana. Oltre a un linguaggio più appropriato servono, poi, persone che testimonino la santità e comunità vivaci». Il cardinale ha denunciato che «spesso, pur essendo di antica evangelizzazione, viviamo come se fossimo senza Cristo e senza Dio». Quali orientamenti e iniziative pastorali mettere in campo per riscoprire il senso dell'identità e della missione cristiana? «Penso sia importante ripartire dagli adulti, impostando una catechesi che parta dalle loro istanze, dalle domande aperte. Da una parte dobbiamo qualificare molto i nostri interventi perché sollecitino un'adesione personale convinta (penso ai centri di ascolto, alle comunità di base). Dall'altra non possiamo blindare la pastorale, ma dobbiamo piuttosto farci carico di domande diverse rispetto al passato facendo sentire il rispetto per la ricerca (penso agli incontri per i genitori dei bambini della catechesi)». Il cardinale ha chiamato tutti i credenti, ma in modo particolare i laici giovani e adulti, a difendere e valorizzare l'anima cristiana dell'Europa. Perché proprio i laici? «Il cardinale, essendo stato assistente nazionale dell'Azione Cattolica, ha avuto modo di riflettere parecchio sulla dignità e il ruolo dei laici, che è poi ciò che è stato detto dal Concilio Vaticano II. Il cardinale ha voluto ricordare che quello dei laici non è un ruolo sussidiario né una delega dalla gerarchia ai laici. C'è un compito originario, proprio, dei laici che deriva dal battesimo e dalla cresima e si sostanzia nel matrimonio, che non può essere fatto da nessun altro: portare il Vangelo nel tessuto secolare della società, attraverso le attività economiche, la politica,..., in forza della loro testimonianza di vita e proposta culturale. È stata una sottolineatura provvidenziale». |