Tashiling, Nepal Al rientro da Lhasa, il desiderio di vedere in prima persona le condizioni di vita dei profughi fu più forte di altre questioni. Passai perciò, un bel po’di tempo tra Bodnath, il quartiere periferico di Kathmandu sede logistica in Nepal dei tibetani della diaspora, e il campo profughi di Patan, la twin town della capitale nepalese, separata da quest’ultima solo dai fetori fecali del fiume Bagmati. Allora, pescando nel mio diario, riporto un brano della visita al campo di Tashiling, vicino Pokhara. Una specie di approdo, di ricerca, di rifugio. Perché come dicono i buddisti...
I take refuge in the Buddha, the Dharma and the Sangha Dopo una mezz’ora di volo con la Buddha Air, atterro al piccolo aereoporto di Pokhara, la Rimini nepalese ai piedi dell’Annapurna. Il bimotore dieci posti a elica Om conferma le simpatiche contaminazioni nepalesi tra religiosità e vita quotidiana. Immagino la faccia di un cattolico in Italia nell’apprendere che la rotta Roma-Milano è stata affidata all’aviomobile battezzato col nome Padre Nostro, possibilmente della Cristo Air: pura fantascienza. A Pokhara noleggio una durissima bicicletta indiana Hero, la mitica bicicletta degli hippy nei ‘60, e, arrancando tra vacche sacre, fatiscenti camion e migliaia di buche, arrivo dopo cinque chilometri di strada ad uno dei più famosi, meglio organizzati, campi per profughi tibetani del Nepal: Tashiling.
Il campo accoglie circa mille rifugiati, di cui trecento nati in Tibet, in un’area dove sono state edificate nel tempo e non senza difficoltà, la scuola, il Tibetan Children Village, l’ospedale, la biblioteca ed anche un piccolo monastero di tradizione Gelug-pa, i berretti gialli del Dalai Lama. Il governo nepalese è già molto, mi dicono, se li ospita come rifugiati non politici: i confini con l’Impero cinese sono infatti più vicini di quanto si immagini. Le istituzioni locali però non sono ostili ed incoraggiano l’integrazione sociale e lavorativa dei tibetani. I finanziamenti sono decisi da Dharamsala ed in questo caso provengono da una fondazione tedesca, la “Herman Gmeiner” che sovvenziona tutte le attività sociali ed educative del campo. Faccio amicizia con una coppia di giovani.
Lei, Rinzin, vent’anni, studentessa di Scienze Politiche a Kathmandu, lui Tenzin, ventiquattro anni, titolare di un piccolo negozio di artigianato tibetano a Pokhara. Nello zainetto ho un po’ di documentazione sulle iniziative europee per la libertà del Tibet, scaricate a Kathmandu dal sito dei radicali. Con loro e con altri intavolo una lunga discussione, spiegando come mai in occidente qualcuno abbia tra i suoi obiettivi quello della democrazia in Cina e del rispetto dei diritti umani, politici e religiosi in Tibet, così come nel Turkestan orientale e nella Mongolia interna: impresa non facile!
Nel frattempo mi fanno visitare il villaggio. Con ammirazione constato la buona organizzazione della vita del campo e mi domando cosa deciderebbero se mai fosse presentata loro l’opportunità di rientrare, liberi, in Tibet. Mi invitano a fermarmi per la cena e, tra una tsampa e qualche bicchiere della terribile chang, la birra tibetana a base di semi di miglio fermentati, racconto del mio recente viaggio in Tibet, e di come sia ridotta oggi la città dei Dalai Lama. Da questo orecchio, però non ci sentono. Per loro, specialmente per i giovani nati nella diaspora, rientrare in Tibet e lottare per cambiarlo è quasi un dovere. Avverto le influenze della mobilitazione del Tibetan Youth Congress, l’attivissima organizzazione giovanile tibetana.
Discutiamo del Panchen Lama, il più giovane prigioniero politico del mondo, tenuto sotto sequestro in un villaggio della provincia di Gansu e delle recenti morti avvenute nell’immondo carcere di Drapchi, a Lhasa. L’ambiente si riscalda. Ormai siamo una ventina e noto una forte tensione tra questi amici nel credere di poter cambiare il presente, lo status quo. Il Dalai Lama si comporta opportunamente nel tentativo di intavolare colloqui segreti con Pechino. Lo fa, sostengono, per dare la possibilità del rientro, per datare la fine della diaspora: poi lotteremo! Tutto ciò mi fa paura: penso alle tremende giornate dell’insurrezione di Lhasa, ai fatti del 1988 e penso che di sangue ne sia già scorso a sufficienza.
Dico loro che l’unica via possibile, quella seguita da quarant’anni da Sua Santità, si basa sul dialogo nonviolento, sui negoziati sino-tibetani sotto gli occhi di tutto il mondo. Mi danno ragione, ma capisco che per loro la metodologia nonviolenta assume colori e connotati diversi dai miei. Non è un metodo, semmai uno slogan. Hanno scarsa dimestichezza di digiuni, scioperi della fame, boicottaggi, atti di resistenza nonviolenta o di disobbedienza civile. I monaci, loro certamente praticano queste forme di lotta: “noi siamo laici!”. Però non sono terroristi, neanche lontanamente. C’è solo un po’ di confusione e molta eccitazione per gli avvenimenti di queste ultime settimane, questa cosiddetta riapertura del dialogo tra Pechino e Dharamsala.
La serata si conclude con il consueto tè al burro di yak e gli ultimi sorrisi li dedichiamo alla spassosa notizia sulla Tv cinese, la sola, che sta per mandare in onda un serial di venti puntate, dal costo enorme di undici milioni di yuan e dall’impegnativo titolo “Storia e sviluppo della Regione autonoma del Tibet dalla sua liberazione nel 1950 ad oggi”. No comment! A notte fonda rientro a Pokhara con la mente rivolta alla giornata passata a Tashiling e alle numerose domande rimaste senza risposta. Sapranno il Dalai Lama ed il suo il Kashag, al momento giusto, moderare le tensioni sociali, i pericoli che il rientro dei tibetani occidentalizzati della diaspora porterà con sé e convertirle in forme di lotta politica nonviolenta, in dialogo aperto con le istituzioni cinesi?
O forse si sta giocando una pragmatica, questo certamente, ma quanto mai rischiosa carta nella ultra-decennale partita con Pechino? E quanto in tutto ciò è frutto della volontà politica del Kashag? Non so darmi ovviamente nessuna risposta. Il giorno seguente, andando verso l’aeroporto, rifletto che se avessimo investito più in contatti con le centinaia di campi profughi tibetani sparpagliati in Nepal ed India, forse oggi avremmo, noi per primi, una coscienza politica più chiara sulle campagne da fare per il Tibet. Ma i pensieri sono tristemente offuscati alla vista di Om, il carcassone della Buddha Air che mi aspetta sulla pista ai piedi dell’Annapurna. Destinazione Kathmandu, spero.
Ed oggi? Vicini veramente ad una Intifada tibetana? Coma sempre, senza una buona palla di vetro è difficile prevedere il futuro. La diaspora tibetana è in agitazione da qualche anno e lentamente qualcosa si sta muovendo. Ma è ancora troppo presto per definire un qualsivoglia percorso. Mentre scrivo - siamo alla fine del mese di ottobre 2003, a cinque anni da quel viaggio - le notizie mi spingono senza dubbi al pessimismo. Le burrascose vicende tibetane sono tornate, infatti, in superficie nel mese di settembre di quest’anno, alla conclusione del lungo viaggio americano del Dalai Lama.
Un tour, durato tre settimane, concluso a Central Park, dove ad ascoltare le parole della XIV reincarnazione di Cenrezig, c’erano, secondo gli organizzatori, duecento mila persone. Un vero successo. È dal 1959, anno dell’esilio volontario in India, che il vecchio monaco percorre in lungo ed in largo il globo alla ricerca di nuovi sostenitori. Eppure Pechino non ha ceduto nemmeno un millimetro ed il Tibet rimane a tutti gli effetti una delle regioni autonome della Repubblica Popolare cinese, peraltro, come abbiamo visto, fra le più turistiche. Di recente si è però parlato di una nuova apertura dei colloqui segreti tra Pechino e Dharamsala.
A fine agosto, di rientro da un viaggio in terra cinese, l’inviato speciale del Dalai Lama, il potente Lodi Gyari, ha così dichiarato: “Siamo stati impressionati dall’attenzione e dalla sincerità mostrati dai leader cinesi nel corso dei nostri incontri”. Dal canto suo, contravvenendo alla vecchia abitudine al silenzio quando sono in corso contatti, il Dalai Lama nelle ultime settimane ha illustrato alla stampa internazionale questo nuovo capitolo delle turbolente relazioni sino-tibetane, ribadendo tra l’altro la tesi della genuina - e cioè concreta ed effettiva - autonomia del Tibet come soluzione ottimale al decennale conflitto diplomatico.
Ed è davvero con cura che negli Stati Uniti Sua Santità ha perorato sia la vecchia teoria del “un paese due sistemi”, sia la possibilità di aprire un canale diretto col presidente cinese Hu Jintao. Forse lo stesso viaggio in Usa è da inscrivere in questo piano. Il Dalai Lama, si dice, avrebbe chiesto l’intercessione del presidente Bush per ottenere una maggiore apertura da Pechino. Nonostante le recenti aperture economiche indiane al colosso cinese non diano più ai tibetani la sicurezza d’un tempo, spingendoli a chiudere al più presto l’annosa questione, il Dalai Lama e la ristretta cerchia dei ministri del Kashag ritengono i colloqui tutt’altro che giunti ad un buon punto.
“Non si discute ancora seriamente, stiamo cercando di instaurare la fiducia”, ha sussurrato Sua Santità con una punta di amarezza a Radio Voice of America alla conclusione del tour negli Stati Uniti. Eppure a fine agosto Tenzin Gyatso aveva rilasciato un’importante intervista al quotidiano inglese “The Guardian”, nella quale Kundun si mostrava di tutt’altro avviso. Dalle sue parole era emersa una Cina “confusa”, che insegue bellicosamente il modello capitalista occidentale. “Penso che la maggior parte dei membri del Partito Comunista non abbia alcun credo genuino nell’ideologia comunista - cito testualmente -. La Cina sta cambiando. È nello stesso suo interesse essere critici riguardo alla politica attuale. Sono molto ottimista”.
Il futuro non sembra quindi roseo per i tibetani. Pechino per ora non dà segni né di cedimento né di voler dare al capo spirituale tibetano il visto per un suo primo viaggio in Tibet. Sembra infatti che per i cinesi sia fondamentale e pregiudiziale un preciso segno di sottomissione del vecchio nemico, per esempio una sua visita a Pechino, oppure un formale riconoscimento della Cina quale madre patria di tutti i cinesi, tibetani compresi. In verità i punti su cui da sempre si arenano i colloqui segreti riguardano il divieto di rientro della diaspora che vive all’estero - circa centotrenta mila tibetani portatori del virus della democrazia - la definizione dei confini del Grande Tibet e lo status dell’attuale Panchen Lama, il Buddha della infinita luce, seconda autorità della scuola tibetana buddista dei Gelug-pa. Pechino ha infatti arrestato il Panchen Lama riconosciuto dal Dalai Lama dall’esilio nel 1995, ed ha insediato sul trono di Tashi Lumpo un secondo bambino, costretto alla fedeltà dai cinesi.
A questi guai se ne sono più recentemente aggiunti altri. In una intervista al quotidiano francese “Le Figaro”, il Dalai Lama si è detto preoccupato anche per l’organizzazione dei giovani tibetani fautori dell’indipendenza del tetto del mondo, da sempre ritenuti teste calde e pronti a penetrare clandestinamente in Tibet per dare il via ad una stagione di attentati contro le postazioni militari cinesi. Una vera e propria Intifada, un martirio senza possibilità di successo, se non quello di offrire il destro al Governo cinese di chiudere una volta per tutte la questione tibetana. Tenzin Gyatso ammette che “ad essere onesto, se la mia posizione dovesse fallire, quei giovani avrebbero il pieno diritto di riprendere la fiaccola e rivendicare l’indipendenza. Bisogna essere pazienti”.
Infine, al vertice di fine mese tra Unione europea e Cina, oltre ai dazi e al turismo i rappresentanti cinesi porranno sul tavolo delle trattative anche altre spinose questioni. Taiwan innanzitutto, ma non solo. Chiederanno ai partner europei, Italia compresa, di non avere più alcun interscambio diplomatico con il XIV Dalai Lama, maldestramente accusato da Pechino di essere una grave minaccia all’integrità territoriale cinese. Alle cancellerie delle democrazie occidentali, per dare più forza di trattativa ai tibetani, il Partito Radicale Transnazionale e l’Associazione delle Regioni Province e Comuni per il Tibet, suggeriscono, invece, di riconoscere al Kashag lo status di Governo in esilio.
Per lui, non luogo a procedere Qui finisce il mio viaggio a metà strada tra politica e fantasia. Tra una folla di monaci gelug e una selva di arpie, sciapodi, ippogrifi, fauni, minotauri, draghi, basilischi, idre, unicorni, grifoni, manticore, ansisbene, sfingi, cinocefali, aspidocheloni, blemmi, tigoni, yeti, dodo, mokele-mbembe, mobot, ogopoghi, grifoni, Storsjoodjuret, insetti radiocomandati e vermi giganti. Simboli dell'oggi. Molte potrebbero essere le colpe da addossare ai tibetani di Dharamsala. Ingenuità, perseveranza nell’errore, scarso senso del pragmatismo. Ma in primo luogo vorrei che fosse chiaro che non me la sento di giudicare. Non loro. Per carità.
Non si affronta mai un topos come quello tibetano senza cadere nell’illusione, nel tocca & fuggi del semplicismo, nel bianco contrapposto al nero e nella scarsa capacità di prospettiva. Loro, i tibetani di Dharamsala, lottano anche più del saggio poeta Milarepa sul monte Kailash. Lottano per salvare il loro popolo dalla diluizione. E poi, riflettendo bene, al popolo del Tibet va tutto il mio amore e la mia dedizione, oggi come ieri. E se dovessi peraltro trasformarmi in uno sbrodoloso giudice e sotto tortura trovarmi stretto nella maledetta situazione di emettere sentenza politica di condanna o assoluzione nei confronti del Dalai Lama, beh, cari miei, non avrei dubbi. Per lui, non luogo a procedere. A prescindere.
Campa a lungo Oceano di Saggezza, il mondo ha bisogno di te. Ti aspettiamo qua, tra i terreni disastri, per vederti guidare le truppe dell’esercito del venticinquesimo re, un esercito che sconfiggerà i nemici del buddismo e diffonderà in tutto il mondo l’utopia di Shangri-la, tanto a lungo nascosta nella catena dell’Himalaya. Noi qua stiamo ad attendere che venga il sospirato momento per te tanto atteso, quando potrai finalmente dare l’iniziazione di Kalacakra a Pechino.
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