Nel silenzio della comunità internazionale I diritti violati in Tibet (e in Cina) Vi sono terre dove i principi sui quali dovrebbe fondarsi la convivenza tra le persone sono violati, e dove viene negata l’esistenza a individui o a popoli interi. Ma nel caso del Tibet, il mondo assiste ed un vero e proprio genocidio. Il 10 marzo 1959, veniva soffocata nel sangue la prima rivolta della popolazione tibetana, dopo un decennio di durissima occupazione cinese. Migliaia i morti, decine di migliaia gli imprigionati; le donne costrette ad abortire o sterilizzate sotto l’effetto dell’anestesia; seimila templi distrutti, l’ottanta per cento delle foreste rase al suolo per trarne legname per l’esportazione. In quell’area la Cina ha impiantato fabbriche di armi nucleari e depositi di scorie; “Amnesty International” denuncia arresti di massa, torture, uso indiscriminato delle pene di morte, omicidi extragiudiziari. Dopo più di quarant’anni i Tibetani chiedono ancora il rispetto della loro vita, della loro cultura, delle loro lingue. Nel 1989 il Dalai Lama, autorità spirituale e non-violenta del popolo Tibetano, ha rivolto un appello per la libertà e la pace nel Tibet e perché venga favorito un accordo con la Cina. È necessario che le Nazioni Unite, attraverso il Consiglio di sicurezza, si esprimano nettamente e senza ambiguità con una risoluzione ultimativa di condanna dell’occupazione cinese del Tibet e delle barbarie compiute nei confronti del suo popolo: manifestando la stessa fermezza adottata nei confronti dei genocidi e crimini contro l’umanità compiuti in altre parti del mondo (vedi il conflitto nell’ex Iugoslavia). Altrimenti, perpetuando la cosiddetta politica “dei due pesi e due misure”, distinguendo gli interventi a seconda delle convenienze politiche, commerciali ed economiche contingenti, l’Onu perderà irrimediabilmente quel residuo di credibilità ed autorevolezza necessarie a realizzare l’affermazione del diritto e dei diritti sul pianeta.
Fabrizio Savona
Direttore Centro studio Carlo Rosselli
Ha ragione: è vergognosa l’acquiescenza con la quale viene accolta la violazione dei diritti dell’uomo in Cina e nel Tibet occupato. Il governo di Pechino perseguita i buddhisti, le minoranze religiose cristiane e musulmane, ma anche movimenti autoctoni come il Falun Gong; arresta i lavoratori che si riuniscono in sindacato; pratica la tortura per estorcere confessioni ai detenuti e fa uso massiccio della pena di morte: Amnesty International denuncia almeno 1.060 esecuzioni (dopo dubbi processi) nel solo 2002. La popolazione di Hong Kong vive nel costante timore di perdere i diritti faticosamente conquistati negli ultimi anni di dominio Britannico. L’alto commissario Onu per i diritti umani, Mary Robinson, ha affrontato le autorità cinesi nell’agosto del 2002, chiedendo conto della repressione contro le minoranze etniche, dei processi politici agli oppositori e dell’iperattivismo del boia. Peccato che non abbia avuto il supporto della sua stessa Commissione: contrariamente alla prassi consolidata, gli Stati membri non hanno voluto proporre una risoluzione di condanna. Daniela Pinna
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