La testimonianza a Milano di due giovani monache sopravvissute a 5 anni di carcere duro. La sfida del dopo 11 settembre «La Cina vuole mano libera per cancellare il Tibet»
Riccardo Cascioli
MILANO. Che senso ha parlare ancora di diritti umani violati in Tibet? Uno è costretto a chiederselo davanti all'ennesima testimonianza di fuoriusciti dal Tibet che raccontano di torture e violenze di ogni tipo perpetrate dai cinesi nei loro confronti. Sono più di 40 anni che queste violenze vengono raccontate e tutto pare essere sempre uguale. Era il 1960 quando la Commissione Internazionale dei Giuristi scriveva in un suo rapporto che «decine di migliaia di tibetani sono stati uccisi senza processo negli anni 1959-60 solo in base al sospetto di attività anticomuniste... essi sono stati percossi a morte, fucilati, crocefissi, strangolati, sepolti vivi, gettati nell'acqua bollente, decapitati...». Il rapporto proseguiva con altri particolari del genere e alla fine dichiarava «colpevole di genocidio» la Repubblica popolare cinese. Sono passati 42 anni da allora, ma le campagne e le pressioni internazionali che in altri casi sembrano aver dato frutti, per la Cina sembrano essere scivolate via come l'acqua. Prendiamo ad esempio Passang Lhamo e Choying Kunsang: sono due giovani monache buddhiste fuggite dal Tibet nel maggio Duemila, dove vivevano semirecluse in casa dopo aver scontato cinque anni di carcere duro. La loro colpa è stata quella di aver manifestato pacificamente in favore della libertà per il Tibet. In questi giorni - invitate da Amnesty International e dall'Associazione Italia-Tibet - sono in Italia per raccontare la loro storia e «chiedere l'aiuto dei popoli liberi e democratici» affinché la libertà torni nel loro Paese. Ieri le abbiamo incontrate a Milano, avvolte nel loro tradizionale vestito rosso scuro, capelli cortissimi, la loro giovane età nascosta da uno sguardo grave, che lascia intravedere cose che alla maggioranza di noi sono risparmiate per tutta la vita. Sono nate nel 1976: dei primi anni dell'invasione cinese sanno solo quello che hanno raccontato loro, eppure lo stesso destino le accomuna a chi le ha precedute. Sessione di rieducazione politica: «Ogni giorno leggevamo giornali e libri comunisti e poi dovevamo discuterli tutti insieme per capire i nostri errori; ogni giorno dovevamo scrivere quello che avevamo imparato e dimostrarci convinte di aver sbagliato e di essere contente ora per l'intervento del governo cinese». E poi botte: «In prigione ci picchiavano moltissimo, usavano molto i bastoni elettrici con cui colpivano nelle parti più intime; ci lasciavano senza cibo; quando il sole picchiava ci mettevano 12-14 ore di fila sotto il sole, quando era molto freddo ci facevano stare scalze sul ghiaccio». Non si può fare a meno di pensare che se quell'accusa di genocidio fatta nel 1960 fosse stata presa sul serio, forse a Passang e Choying tante sofferenze sarebbero state risparmiate. E con loro a tante migliaia di monaci e laici che chiedono soltanto il rispetto della propria libertà. Cos'è per voi la libertà?, chiedo. «È il rispetto dei diritti umani - mi risponde Choying -, la possibilità di vivere la nostra cultura, la nostra religione». I cinesi dicono che non avevate alcuna libertà prima del loro arrivo, che sotto il Dalai Lama non c'era né libertà né sviluppo. «Noi non c'eravamo, ma i nostri genitori ci hanno raccontato di come era prima: si poteva andare nei monasteri, si poteva studiare, si poteva avere figli». Figli?, già perché la donna tibetana paga ancora più duramente con sterilizzazioni e aborti forzati: «Da noi la politica di controllo delle nascite è ancora più severa che nel resto della Cina perché vogliono annullare i tibetani come razza». Ciò che il governo di Pechino odia è la possibilità che degli uomini siano se stessi. Forse è proprio qui la ragione per cui ha ancora senso parlare del dramma del Tibet, così come di tutte le altre tragedie di cui è responsabile il governo cinese: perché in ballo c'è anche la nostra libertà. E anche perché le cose ora potrebbero andare anche peggio, dato che la lotta globale al terrorismo lanciata dopo i fatti dell'11 settembre promette di avere anche il Tibet fra le sue vittime: «Anche se la nostra protesta è pacifica, sentiamo che il governo cinese ci descriverà come terroristi, così da avere mano libera», dice Choying. E comunque chi andrà a disturbare la Cina quando il suo apporto è giudicato fondamentale in questa guerra al terrorismo? Riccardo Cascioli
|