Sotto il sole a picco, Padum ha la consistenza di un miraggio nel deserto. Dopo tre giorni di jeep, poco più di quattrocento chilometri consumati in tre tappe di otto ore l’una, quel pugno di case avvolte dalla sabbia sollevata dal vento che si leva puntuale ogni mezzogiorno, arriva come una meta oltre la quale non può esserci più nulla. Il capoluogo dello Zanskar, India del Nord, cinquemila chilometri quadrati chiusi tra la catena dell’Himalaya a sud, e quella dei monti Zanskar a nord, è l’immagine stessa dell’essenziale. Isolata per sei mesi l’anno dal resto del mondo la valle è una conca di pietra e sabbia, chiusa da monti dai fianchi pelati su cui le ombre delle nuvole creano giochi di luce. Sabbia e sassi a perdita d’occhio, il ristoro del cielo azzurro, della neve eterna dei ghiacciai sulle vette, macchie di verde smeraldo in lontananza, dove i villaggi punteggiano la valle come sentinelle. Anche l’itinerario da Leh a Padum è un percorso in un crescendo di essenzialità. Prima lungo il corso dell’Indo, tra monti lunari e gli improvvisi squarci di verde del fondovalle. Poi su per tornanti vertiginosi fino al monastero di Lamayuru, una volta isolato su una costa di roccia, di fronte alle cascate pietrificate di concrezioni calcaree, ora grazie alla costruzione di una strada percorribile da pullman e jeep, tappa obbligata per chi viaggia tra Leh e Srinagar. Tra i muri bianchi e rossi risalenti al XII secolo risuonano le litanie dei monaci in preghiera. A pochi passi, i monaci hanno costruito un hotel, si dice con finanziamenti occidentali destinati al restauro del monastero: mentre pochi turisti animano la hall troppo vasta, i muri dell’antico edificio continuano a sgretolarsi al sole e al vento, e gli abitanti del villaggio chiudono le loro guest-house. Il confine tra zona buddista e zona musulmana è affidato a pochi inequivocabili segni. A Mulbek, l’imponente sagoma del Buddha Sakyamuni, con il sorriso ineffabile e le quattro braccia che reggono gli attributi sacri, controlla la strada dalla roccia su cui è stato scolpito secoli fa. Pochi chilometri più avanti, verso Kargil, le cupole delle moschee svettano lucide sui tetti dei villaggi, e le ragazze che tornano da scuola hanno il capo coperto da un velo bianco chiuso sotto il mento. Kargil è un crocevia informe, strade sterrate su cui si affacciano case non finite di cemento, una fama conquistata grazie alla guerra del ’99 tra India e Pakistan, combattuta a pochi chilometri da qui. Ma appena fuori dalla cittadina, la valle del Suru è un paradiso di vegetazione e di acqua che scorre impetuosa nel fiume e nei canali d’irrigazione. Man mano che si sale, lungo la strada stretta e sterrata che segue le pieghe della roccia, i villaggi si fanno sempre più minuscoli, pugni di case di mattoni di fango nascoste tra campi di grano e boschetti di pioppi. Dietro una curva, la valle si allarga inaspettatamente, chiusa in fondo dal bastione dell’Himalaya: le due vette del Nun-Kun con i loro settemila metri e più, annunciano l’ingresso nel regno delle nevi eterne. D’ora in poi, su fino al passo di Pansi-La, 4400 metri d’altitudine, e poi giù lungo la valle dello Zanskar, saranno lingue di ghiaccio che scendono da valli senza nome a lambire la strada, vento che solleva turbini di sabbia luccicante, acqua rapida dei torrenti, voli di falchi alti nel cielo, pascoli di stelle alpine a perdita d’occhio, branchi di marmotte fulve distese pigre al sole. La conca di Rangdum ci accoglie per la sera. Dieci case di contadini, attorno a cui i bambini fanno correre col bastone un cerchione di bicicletta. La corriera che scende lungo la valle arriva in una nube di sabbia e fumo, scaricando due monaci partiti dal monastero buddhista che si intravede sul fondo. Tunica rosso cupo, un cappelletto a cilindro di feltro arancione sulla testa, hanno portato arco e frecce per sfidare gli uomini del villaggio. Il bersaglio è collocato a venti metri su un sasso per terra, un percussionista batte sui bonghi, per dare solennità alla gara. Si decide l’ordine di tiro facendo cadere le frecce a terra come i bastoncini dello shanghai, poi via tra le ovazioni e le pacche sulle spalle. Il sole cala dietro i monti, le donne fanno rientrare le mucche nei recinti accanto alle case, per la mungitura serale. Ci sistemiamo per la notte nella ’stanza buona’ liberata per noi da una famiglia, in una delle casupole del villaggio. Sul soffitto si intravedono i rami della copertura. Su una parete, in bell’ordine i recipienti di metallo e le tazze di porcellana decorata, sull’attaccapanni in fila i pastrani di lana spessa pronti per l’inverno, su un’altra parete le foto di famiglia, con gli abiti della festa, assieme ai turisti di passaggio. Fuori, la luna sorge da un sella tra i monti, come in un dipinto, e si specchia nell’acquitrino dietro il profilo del monastero in controluce. Padum si rivela in una nuvola di polvere sollevata dal vento. Sassi e sabbia, nella valle dello Zanskar, e la sensazione di essere fuori dal mondo. D’inverno - ma anche d’estate quando cala il freddo: si racconta che un paio d’anni fa in giugno una fila di camion sia rimasta bloccata dal ghiaccio sul passo di Pansi-La, ed alcuni autisti siano morti assiderati per l’impossibilità di ricevere aiuti - la valle è isolata dal resto del mondo, salvo che per il percorso lungo il fiume ghiacciato stretto nella gola di roccia, quattro giorni a piedi per raggiungere Leh, oltre la catena di monti. Da lì è arrivata Tsetan, ventinove anni, insegnante di inglese e matematica in una delle tre scuole tibetane costruite nella valle grazie agli aiuti occidentali. Fuggita ancora bambina dal Tibet occupato dai cinesi, dove vivono tuttora i genitori, in India ha sposato un connazionale, che ha lasciato in città assieme al figlio di tre anni per venire a lavorare qui, da marzo a novembre. «I bambini vengono a scuola volentieri - racconta sorridendo. - L’alternativa per molti di loro è alzarsi alle cinque di mattina per portare gli animali al pascolo». Oggi la scuola è chiusa, per la festa a Tongde. Dai villaggi la gente si incammina verso il monastero, le donne più anziane con i loro copricapi tempestati di turchesi, dote tramandata da madre a figlia, gli uomini nei loro pastrani di lana scura ravvivati dalla fascia colorata in vita. Il giro rituale attorno alle mura dell’edificio, poi la preghiera al Buddha, e l’attesa dell’uscita dei danzatori nel minuscolo cortile. I bambini si accalcano sulla terrazza sul tetto, le donne sono accovacciate sotto il portico, monaci e monache siedono sulle loro panche. Esce il Vecchio Cinese, accompagnato dai suoi Assistenti, lui distribuisce biscotti e caramelle, gli altri si infilano tra gli spettatori per fare dispetti, tirare i capelli, chiedere l’elemosina. Escono le divinità con le maschere dai musi di animale, cervi dalle lunghe corna, cani, mucche... si muovono lenti al ritmo dei tamburi. Escono i laici in processione, per rendere omaggio alla statua del Buddha e all’immagine del Dalai Lama, prima di sedersi a sorseggiare il tè col burro di yak. La festa proseguirà fino all’indomani, con altri riti e preghiere. Buddhismo di devozione e tradizione, di ritualità arcaica legata alla terra e alle stagioni, al ciclo della vita che chiede santità e illuminazione. (2. Continua)
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SI PARLA IL TIBETANO NELLA SCUOLA COSTRUITA CON GLI AIUTI OCCIDENTALI
C’è anche il sostegno italiano, tramite l’associazione Aiuto allo Zanskar (www.aazanskar.org), nella realizzazione della «Lamdon Model High School» di Padum, una delle tre scuole costruite nella valle dello Zanskar, nell’India del Nord, con l’aiuto internazionale. Fu nel 1988 che gli abitanti della valle decisero di costituire una scuola privata, nella quale i loro figli - a differenza degli allievi delle scuole pubbliche in cui si insegna l’urdu - potessero apprendere la lingua tibetana, il bodhi, parlata dalla popolazione della valle, di cultura buddhista. Grazie al finanziamento dell’associazione franco-italiana Aiuto allo Zanskar, nel 1990 il Dalai Lama in persona pose la prima pietra della costruzione, e nel 2000 il nuovo complesso venne inaugurato, con 14 aule, una biblioteca e laboratori. Quest’estate è stato completato e consegnato alla scuola un ulteriore edificio, con otto miniappartamenti destinati agli insegnanti, alcuni dei quali sono profughi tibetani provenienti da Dharamsala. Attualmente la scuola ospita oltre 300 allievi (il 35% dei quali sono ragazze) dalle classi elementari alle superiori, 14 insegnanti, 4 bidelli e due operai addetti al trasporto dell’acqua potabile dalla sorgente che dista alcuni chilometri. All’esterno dell’edificio sono stati piantati 154 alberi, che tra 15 anni fornìniranno il legno per la costruzione del nuovo tetto della scuola. (gio. ca.) |