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Kashmir, storia di un conflitto

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Rassegna stampa curata saltuariamente da Marco Vasta


28/01/2003  Cina, giustiziato un tibetano «Ma il dialogo non si ferma» intervista a Kelsang Gyaltsen di Alessandra Coppola


dal 28/01/2003 al 28/01/2003 Stato: Cina

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Regione: - Dipartimento: -
Città: Kardze Tibetan Autonomous Prefecture, Sichuan
dove:Kardze
Fonte:Corriere della Sera

In Breve (lingua: Italiano )

Per il negoziatore tibetano c’è un nuovo ostacolo sulla strada del dialogo. Kelsang Gyaltsen, rappresentante del Dalai Lama in Europa, ha appena ricevuto la notizia della morte del giovane connazionale, giustiziato dai cinesi nonostante gli appelli, la mobilitazione internazionale, le campagne di Amnesty International e Human Rights Watch


Contenuto di: Intervista a Kelsang Gyaltsen

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ulla parola)

Parla l’inviato del Dalai Lama che ha ripreso i contatti con Pechino
Cina, giustiziato un tibetano «Ma il dialogo non si ferma»
«Dopo 10 anni di gelo, bisogna coltivare i nuovi rapporti»


Per il negoziatore tibetano c’è un nuovo ostacolo sulla strada del dialogo. Kelsang Gyaltsen, rappresentante del Dalai Lama in Europa, ha appena ricevuto la notizia della morte del giovane connazionale, giustiziato dai cinesi nonostante gli appelli, la mobilitazione internazionale, le campagne di Amnesty International e Human Rights Watch . Ed è scioccato: «Speravamo che la condanna fosse commutata in ergastolo, - dice al telefono dalla Svizzera -, credevamo di essere ormai entrati in una nuova fase delle relazioni con Pechino». Poi si riprende, pensa al dialogo che proprio lui ha contribuito a riannodare, pochi mesi fa, dopo dieci anni di gelo, con un viaggio in Cina per conto del Dalai Lama. E dice: «Tutto questo non aiuta, ma noi andremo avanti nel nostro sforzo di instaurare un dialogo autentico. Perché siamo convinti che sia l’unica strada per trovare una soluzione».
Come si erano svolti i suoi colloqui di settembre con le autorità cinesi?
«In modo molto amichevole. Il compito della nostra delegazione era stabilire contatti diretti con il governo di Pechino, dopo l’interruzione del ’93. E in questo senso la missione è stata un successo. Negli anni Ottanta, l’atteggiamento dei funzionari cinesi era molto arrogante. Questa volta, invece, abbiamo potuto esporre le nostre ragioni. Anche se le posizioni di Pechino (il Tibet storico deve restare sotto controllo cinese, ndr ) non sono cambiate».
Negli ultimi 15 anni, invece, le richieste del Dalai Lama si sono in qualche modo ridimensionate.
«Dagli anni Ottanta la nostra linea è fondata essenzialmente su tre punti: 1) lotta rigorosamente non violenta; 2) ricerca del dialogo; 3) rinuncia all’indipendenza in cambio di un’autentica autonomia».
In questi anni, però, soprattutto tra i più giovani sembrano emergere posizioni più radicali.
«E’ vero, c’è chi non è d’accordo con la leadership tibetana. In particolare sono due gli elementi di critica. 1) La non violenza non funziona e l’esperienza di questi ultimi 50 anni lo prova. Così come il conflitto israelo- palestinesi dimostra che dove c’è violenza c’è anche attenzione internazionale; 2) bisogna perseguire l’indipendenza perché il Tibet è stato occupato con la forza ed è nel suo diritto tornare indipendente. Sfortunatamente le voci critiche tra i tibetani stanno aumentando e se 10-15 anni fa restavano sul piano teorico, oggi si sono fatte molto più aspre, riflesso di un profondo senso di frustrazione. E’ uno sviluppo che ci preoccupa molto».
Questo disaccordo si è concretizzato anche in azioni violente? L’esecuzione del giovane tibetano sarebbe proprio in relazione ad una serie di attentati anti-cinesi .
«E’ quanto sostengono le autorità di Pechino che stanno tentando di mettere la lotta tibetana nell’angolo del terrorismo. L’altra persona condannata con il ragazzo, però, è un Lama molto conosciuto, e non c’è dubbio che non abbia sostenuto metodi violenti».
Oltre alle violazioni dei diritti umani, l’altra questione aperta con la Cina riguarda la «conquista» economica e demografica del Tibet .
«Negli anni ’60-’70, la repressione fisica era molto più severa, dagli anni ’80 il problema principale è diventato l’immigrazione dei cinesi, che oggi costituiscono la maggior parte della popolazione e controllano quasi tutte le attività economiche. Che sia o no una precisa strategia di Pechino, in Tibet è in corso un genocidio culturale».


Altri link: Associazione Italia Tibet 
Altri link: Intervista a Kelsang Gyaltsen 

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