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Kashmir, storia di un conflitto

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Rassegna stampa curata saltuariamente da Marco Vasta


26/02/2002  «Un Tibet autonomo per tornare a casa»


dal 26/02/2002 al 26/02/2002 Stato: Italia

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Regione: Lombardia Dipartimento: -
Città: Brescia
dove:Palazzo Broletto
Fonte:Associazione Italia Tibet

In Breve (lingua: Italiano )

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Contenuto di: «Un Tibet autonomo per tornare a casa»

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ulla parola)

Incontro con Jetsun Pema, sorella del Dalai Lama
«Un Tibet autonomo per tornare a casa»
«Non vogliamo l’indipendenza dalla Cina, ma un’autonomia che ci permetta di mantenere la nostra cultura, la nostra lingua, la nostra religione. Il Dalai Lama accetterà di sedersi allo stesso tavolo del presidente cinese Jiang Zemin solo quando sarà possibile parlare di autonomia del Tibet. I cinesi continuano a dire al mondo di non volerci incontrare perchè chiediamo l’indipendenza. Non è così. In realtà le proposte del governo tibetano in esilio fatte ai cinesi per risolvere pacificamente la questione non sono mai state prese in considerazione: la Cina non ha mai risposto e si è sempre rifiutata di iniziare qualsiasi negoziato, continuando a presentare al mondo la questione tibetana come un problema del Dalai Lama, e non quello di milioni di persone rifugiate sparse per il mondo». Il Tibet era, di fatto, indipendente prima dell’invasione cinese dell’ottobre 1950. «Ma ora le condizioni sono cambiate e noi miriamo all’autonomia e non all’indipendenza per poter tornare a casa». Jetsun Pema, sorella di Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama, pontefice supremo del buddhismo tibetano, non si stanca di raccontare la sua sofferenza, che è anche quella del suo popolo. E lo fa girando il mondo: in questi giorni a Brescia ha incontrato, insieme al marito Tempa Tsering, il presidente della Provincia e oggi, a palazzo Loggia, riceverà dalle mani del sindaco Paolo Corsini il premio «Coraggio 2002» promosso dalla sezione bresciana dell’Ande (Associazione nazionale donne elettrici). Le condizioni attuali in Tibet, dunque, sono profondamente mutate, rispetto a quelle trovate dalle truppe della Repubblica popolare cinese che lo invasero dopo aver attaccato in sei punti la frontiera tra Cina e Tibet, sbaragliando in pochi giorni la resistenza dell’esercito tibetano. In Tibet, ora, a fronte di sei milioni di tibetani, vivono sette milioni e mezzo di cinesi, mentre i tibetani in esilio sono oltre 120 mila distribuiti tra India - a Dharamsala ha sede il governo in esilio -, Nepal e Bhutan. Per sfuggire alle persecuzioni cinesi, dal Tibet continuano ad arrivati moltissimi rifugiati. «Sono circa 650 le persone che giungono ogni anno da noi, in India. Sono soprattutto bambini che riescono a fuggire il confine e a rifugiarsi nel centro di accoglienza nei pressi di Katmandu, in Nepal. Qui, grazie all’aiuto delle Nazioni Unite e con l’assistenza dei connazionali in esilio, molti riescono ad avere la carta di rifugiato - racconta Jetsun Pema -. Quando arrivano al centro sono stremati per aver varcato valichi molto alti, spesso con un abbigilamento non adatto perchè sono poveri. Molti hanno le dita di mani e piedi congelate e spesso bisogna amputarle per salvare loro la vita». Scappare, tuttavia, diventa sempre più difficile: i cinesi hanno aumentato il numero dei check-points e premiano i militari che riescono a rispedire in Cina chi tenta di scappare. Spesso fingono di non vedere, ma a prezzi sempre più alti per i poveri profughi. La fuga è dettata da condizioni di vita disperate: le autorità cinesi in Tibet praticano la discriminazione e la segregazione nei confronti dei tibetani; le cure mediche non sono accessibili a tutti e le strutture migliori sono riservate ai cinesi. Ancora, in Tibet l’istruzione per i bambini cinesi è migliore di quella disponibile per i tibetani e alle superiori il 70% dei posti è riservato ai cinesi. È proibito l’insegnamento e lo studio del Buddhismo: monaci e monache continuano ad essere espulsi dai monasteri e proprio ieri, a Roma, due monache tibetane hanno raccontato la persecuzione, la prigione e le torture fisiche e morali che hanno subìto per aver manifestato pacificamente a favore della libertà del Tibet e del diritto di professare la loro religione. «Da noi le condizioni sono tremende e sono ancora peggiori per i prigionieri politici (soprattutto tibetani, ndr). Noi monache siamo state sottoposte ad interventi di rieducazione politica e di indottrinamento comunista che prevedono anche di rinnegare e insultare il Dalai Lama». La testimonianza delle monache buddiste è confermata dalla sorella del Dalai Lama: «Per gli occidentali che si recano a Lhasa è difficile rendersi conto di quanto sta succedendo: se un tibetano parla con un turista, subito dopo viene picchiato dalla polizia cinese». E il suo ritorno in Tibet? «È il nostro sogno, ma non possiamo tornare fino a quando il nostro Paese non sarà autonomo: se dovessi rientrare ora, dovrei firmare un documento in cui dichiaro di essere cinese».
Anna Della Moretta


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