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Kashmir, storia di un conflitto

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Rassegna stampa curata saltuariamente da Marco Vasta


25/08/2001 08:35:54  In equilibrio sulle vette dell'Himalaya


dal 25/08/2001 08:35:54 al Stato:

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In equilibrio sulle vette dell'Himalaya
MARIROSA DI STEFANO

Per l'occidente, il Tibet uscì dalle nebbie della leggenda - che lo voleva paese-rifugio della cristianità arcana del mitico prete Gianni o, alternativamente, regno inospitale di selvaggi che praticavano sortilegi e riti cannibalici - solo nel 1624, quando Antonio de Andrade, missionario-esploratore per conto della compagnia di Gesù, arrivò a Tsaparang, culla della più antica civiltà tibetana, descritta fedelmente nel rapporto ai suoi superiori pubblicato con il titolo di Nuovo Scobrimento. All'epoca l'unificazione del Tibet sotto un solo potere ecclesiastico non era ancora avvenuta, ma il giovane 5 Dalailama appena insediato a Lhasa, avrebbe di lì a poco ricevuto dal capo mongolo Gushi Khan il dominio su tutte le province del paese, dando inizio, insieme alla costruzione dello straordinario palazzo del Potala, ad un periodo di fioritura delle lettere e delle arti, fervido di scambi culturali ed economici con i paesi vicini.
Non era la prima volta che il Tibet si apriva alle culture straniere a cui, a dispetto del suo isolamento geografico, non era mai stato impermeabile. Anzi. Risale all'VIII secolo il primo documentato esempio di interazione culturale tra il Tibet e il resto del mondo e riguarda un lungo congresso (durò 50 anni) durante il quale dottori tibetani confrontarono le loro conoscenze in materia di astrologia e di medicina con quelle dei loro colleghi cinesi e indiani e con i saperi propri della tradizione greca, di cui erano depositari i Ga-le-nos del regno di Khrom (Roma) provenienti dal Tazig (nome tibetano per indicare la Persia e forse l'intera penisola arabica). Questo incontro himalayano, che è considerato il primo dialogo ufficiale tra la medicina tradizionale del Tibet e quella occidentale, ha preceduto di 12 secoli il I Congresso Internazionale di Medicina Tibetana che si è tenuto a Washington D.C. nel novembre del 1998.

Le origini della medicina tibetana affondano probabilmente nell'epoca prebuddhista del paese - storicamente mal documentata - che aveva una cultura autoctona, detta Bonpo, che ancora fa sentire la sua influenza nella cosmogonia e nella pratica religiosa tradizionale del Tibet. Si dice che il più antico tra i manoscritti conservati presso le scuole mediche tibetane sia il trattato Bon detto Bum-Bzhi, un testo compilato circa 1700 anni prima di Cristo. Il Bum-Bzhi fu alla base della pratica medica in Tibet fino al VII secolo, quando insieme al buddhismo arrivarono in Tibet i testi sanscriti dell'Ayurveda, l'arte medica indiana (ayu significa "vita" e veda vuol dire "conoscere"). Tra il VII e il IX secolo vennero tradotti in tibetano molti trattati di medicina indiani e cinesi e di alcuni, perso ormai l'originale, resta oggi solo l'antica versione tibetana. La medicina tibetana si arricchì di nuove conoscenze nel XIII e nel XIV secolo: vennero introdotti nuovi preparati medicinali e tecniche terapeutiche, e la materia medica contenuta nei Quattro Tantra - il trattato, forse d'origine indiana, considerato come la parola del Bhudda Maestro dei Rimedi - fu ampliata e rivista alla luce di nozioni estranee alla tradizione ayurvedica. Più tardi, più o meno negli stessi anni in cui i gesuiti, "scoperto" il paese, stabilivano una loro missione a Lhasa, l'insegnamento della medicina venne istituzionalizzato con la creazione della Scuola Medica di Chakpori, cui si deve soprattutto la diffusione e il prestigio che, nel corso del tempo, la medicina tibetana ha acquisito in tutto il mondo buddhista dell'Asia centrale.

Oltre che in istituzioni specializzate, però, l'arte medica tibetana era insegnata privatamente e le conoscenze venivano trasmesse da maestro ad allievo e da padre a figlio, o anche a figlia: niente vietava, infatti, che le donne esercitassero la professione medica in Tibet al tempo in cui sulle guaritrici europee pesava il pericoloso sospetto di stregoneria. Comunque i medici tibetani erano prevalentemente maschi e monaci. I monasteri - il più famoso per la bravura dei suoi monaci-dottori è stato quello di Kumbum - non erano solo luoghi di culto ma vere e proprie università dove, insieme a varie altre discipline, si studiava e si praticava la medicina. C'erano laboratori per la preparazione dei farmaci e stanze per trattare gli ammalati; la popolazione locale collaborava con i medici nella raccolta delle piante e delle erbe medicinali e ciascuno era tenuto a pagare le terapie in ragione delle proprie condizioni economiche, sebbene nessun compenso fosse richiesto nè accettato se il paziente era povero.

La medicina tibetana si fonda sull'assunto che la materia biologica non sia diversa dalla materia fisica di cui è composto il mondo esterno perchè tutti i fenomeni sono identici nella loro essenza e legati in un rapporto reciproco dovuto alla loro essenziale identità costitutiva. Gli esseri viventi, così come la realtà in cui sono immersi, sono tutti composti da particelle infinitesimali, ognuna delle quali è un "conglomerato" in cui sono presenti in proporzioni diverse i 5 elementi fondamentali, Terra, Aria, Acqua, Fuoco e Spazio che rappresentano i costituenti ultimi dell'universo. Ciascuno dei 5 elementi possiede una sua peculiare forma di energia e le diverse forme che la materia assume sono il prodotto dell'interazione tra le diverse energie che la costituiscono. La condizione di benessere psicofisico dell'organismo dipende così dal naturale equilibrio dei suoi costituenti elementari, ovvero dall'equilibrio dei tre umori - Aria, Bile e Flemma - che rappresentano l'espressione biologica delle potenze (o energie) degli elementi costitutivi del corpo. Ogni alterazione nell'equilibrio degli umori riflette dunque il sottostante squilibrio degli elementi. La scelta del rimedio per "pacificare" (risolvere) le malattie dipende dalla natura dello squilibrio e si basa sulle energie proprie degli elementi che hanno determinato la malattia. Per esempio, nel caso di un disturbo dovuto all'aumento dell'elemento Fuoco, l'equilibrio tra gli elementi viene ristabilito mediante farmaci che esprimono l'energia caratteristica dell'elemento Acqua, opposta a quella del Fuoco. Il corpo è in buona salute quando nessuno dei suoi sette macro-costituenti (Essenza Nutritiva, Sangue, Tessuto Muscolare e Connettivo, Tessuto Adiposo, Tessuto Osseo, Tessuto Midollare e Fluidi Generativi) è diventato "difettoso" in conseguenza di un disequilibrio tra gli umori. Ciascuno dei costituenti fisici è considerato il "distillato" di quello che lo precede: il processo inizia con l'estrazione dell'Essenza Nutritiva dai cibi e termina con la formazione dei Fluidi Generativi, risultato della "distillazione" del Tessuto Midollare. La sequenza di trasformazioni avviene ad opera di specifiche energie, descritte come aspetti diversi dell'energia detta "Calore" che innesca il primo stadio del processo.

Le malattie, diagnosticate con l'ascultazione dei polsi e l'ispezione delle urine, vengono curate con preparati complessi i cui "ingredienti" possono non essere esclusivamente vegetali ma includere metalli, polveri minerali e parti di organi animali. Pochi farmaci tibetani sono fatti di un singolo ingrediente. La maggior parte è composta di molte sostanze (in massima parte vegetali) il cui numero è spesso associato al nome del prodotto, per differenziarlo da altri farmaci con ingredienti in comune. I testi di medicina riportano istruzioni dettagliate per preparare qualche centinaia di farmaci diversi, a partire dalla raccolta delle piante medicinali fino alle specifiche procedure per trattare e combinare insieme i singoli ingredienti. Oltre che su una ricca farmacopea le terapie tibetane si basano su tecniche esterne quali il salasso e la moxibustione. Esiste un preciso inventario dei numerosissimi punti del corpo su cui eseguire il salasso o applicare la moxa nelle diverse malattie. La chirurgia, molto stimata dai moderni medici tibetani, è pressoché ignorata dalla medicina tradizionale che si limita allo svuotamento degli ascessi e alla riduzione delle fratture.

La medicina tibetana non ha elaborato strumenti farmacologici contro gli agenti patogeni esterni, pur riconoscendone l'esistenza e la pericolosità. Antibiotici e affini non sono presenti nella farmacopea tibetana sebbene la patogenesi di un'intera classe di malattie sia attribuita alle "provocazioni" definite come "esseri non umani" che penetrano e si muovono nell'organismo attraverso vie specifiche, in relazione agli organi su cui esse agiscono. E' difficile resistere alla tentazione di identificare le "provocazioni" con i virus e i batteri a cui i diversi organi sono specificamente sensibili. Comunque sia, la medicina tibetana sembra avere scelto di non intervenire direttamente sugli agenti aggressori ma solo sulle conseguenze del loro ingresso nel corpo: non tenta di eliminare le cause ma preferisce agire sulle alterazioni degli equilibri funzionali del corpo che ne rappresentano gli effetti.
La concezione tibetana di equilibrio funzionale contiene in sè l'idea che l'interazione esistente tra tutte le manifestazioni biologiche non rappresenti uno stato stabile ma una condizione dinamica dipendente da una ciclicità interna al sistema. E' suggestivo che una nozione analoga sia presente nella moderna cronobiologia, disciplina che cerca di dimostrare sperimentalmente che la materia vivente è soggetta a una continua variazione di stato e i ritmi biologici sono la manifestazione di questa condizione di cambiamento ciclico in cui si alternano fasi di accumulo e di dissipazione dell'energia.
In sintesi, tutta l'arte medica tibetana è indirizzata a mantenere lo stato di naturale armonia dinamica tra i costituenti dell'organismo; ogni malattia è effetto dell'alterazione di quest'armonia e ogni terapia è indirizzata al suo ripristino. Queste convinzioni si riflettono nel linguaggio dei testi medici da cui sono assenti espressioni quali combattere, sconfiggere, debellare le malattie, e si utilizzano invece termini come sedare, pacificare, riequilibrare.

All'apertura del I Congresso di Medicina Tibetana di Washington, Wayne Jonas, direttore dell'Ufficio di Medicina Alternativa del National Institute of Health ha dichiarato che il 40% degli americani si cura con terapie alternative a quelle della scienza ufficiale, per un giro di affari pari a circa 10 miliardi di dollari. Quasi in risposta ai dati sulla diffusione delle medicine alternative, il Dalailama, nel suo discorso introduttivo, ha messo in guardia dalla pratica della medicina tibetana da parte di persone poco esperte: ha sottolineato che la medicina tibetana va apprezzata per la sua qualità scientifica, deve essere studiata con serietà e i farmaci vanno sperimentati identificandone i meccanismi d'azione. Tra lo sconcerto di molti occidentali ha poi dichiarato che se un dottore dà al paziente la medicina sbagliata non c'è recitazione di mantra che tenga: in altre parole la medicina e la spiritualità vanno tenute separate, sebbene sia indubbio - dice il Dailalama - che la spiritualità migliori grandemente ogni pratica terapeutica.
Nel suo primo congresso in occidente, dunque, la medicina tibetana ha rivendicato il suo status di scienza, rifiutando interpretazioni esoteriche dei risultati e connotati magici degli interventi di cura.
Molto incoraggianti sono i dati clinici - raccolti in diverse istituzioni mediche europee ed americane - che riguardano l'efficacia di farmaci tibetani nella cura dell'epatite B e C, dell'anemia aplastica e dell'arterosclerosi. Gli studi in vitro suggeriscono che molti degli effetti dei preparati tibetani siano riportabili alle capacità antiossidanti e di inibizione delle proteasi proprie delle erbe di cui sono composti. L'efficacia clinica dei farmaci tibetani sembra però essere maggiore di quella che ci si aspetterebbe sulla base delle proprietà farmacologiche dei singoli ingredienti vegetali di cui sono fatti, probabilmente perchè la miscela delle diverse erbe produce un effetto sinergico che ne potenzia l'attività. All'Università di Vienna, Christa Kletter studia la farmacognosia tibetana, si occupa cioè della identificazione botanica delle piante alla base dei farmaci e dello studio dei loro principi attivi. Lo scopo più immediato è quello di creare una monografia delle erbe medicinali usate nella medicina tibetana e confrontare le caratteristiche di queste erbe con quelle di piante analoghe che crescono sulle montagne europee: questo lavoro è particolarmente necessario perchè negli ultimi decenni, tra gli stessi medici tradizionali che esercitano la professione nelle valli dell'Himalaya, si è andata molto impoverendo la conoscenza delle proprietà delle piante ed il riconoscimento in natura delle piante stesse.

La medicina tibetana è parte integrante della cultura buddhista di cui la "scienza interiore" rappresenta un aspetto fondamentale. La scienza interiore è diretta alla conoscenza e all'addestramento della mente mediante tecniche psicofisiche centrate sulla meditazione. Queste tecniche hanno come scopo primario l'ottenimento dell'illuminazione, ma i buddhisti ritiengono che praticandole sia possibile ottenere anche benefici temporali, quali una buona salute. Indubbiamente dunque, l'esistenza di un'interazione funzionale tra corpo e mente - che solo dall'ultimo quarto di secolo è un riconosciuto oggetto di studio delle neuroscienze - è un concetto strutturale alla medicina tradizionale del Tibet. Tra le procedure di cura, prima dei farmaci e delle terapie esterne, la medicina tibetana annovera il "comportamento" e cioè un insieme di interventi terapeutici basati sulla modifica delle abitudini di vita del paziente: sia delle abitudini fisiche (cibo, luogo di residenza) sia di quelle psicologiche, che si riferiscono alle attitudini mentali con cui si affronta il vivere quotidiano e ci si relaziona con gli altri. Gli stati mentali negativi influenzerebbero lo stato fisico inducendo blocchi o anomalie dei flussi di energia che governano il corpo; la meditazione eserciterebbe i suoi effetti positivi "purificando gli aspetti impuri delle essenze del corpo" fino al raggiungimento del corpo "adamantino" o "corpo di arcobaleno". Herbert Benson, della Medical School di Harvard, studia da anni le modificazioni fisiologiche che avvengono nel corso di una specifica forma di meditazione tibetana detta g-Tumo-mo durante la quale i praticanti avanzati liberano calore (tanto intenso da asciugare i vestiti bagnati e sciogliere la neve su cui sono seduti) e alterano perciò tutte le reazioni di tipo vegetativo che normalmente il corpo mette in atto per difendersi dal freddo.

Questo sviluppo di calore - che avviene mediante il controllo della respirazione - si accompagna a significative modificazioni dell'elettroencefalogramma (oltre che di molti altri parametri neurovegetativi) e a una soggettiva sensazione di piacere "mistico". Attualmente, soprattutto negli Usa vi è estremo interesse per le pratiche meditative come supporto ai trattamenti psicoanalitici e alla Columbia University, Joseph Loizzo, propone un intero programma terapeutico basato sulla meditazione, ritenuta uno strumento di grande efficacia nel trattamento dei sintomi da stress, dell'ipertensione arteriosa e anche di certe forme di disagio mentale.

Una notazione finale: l'aspetto della scienza medica tibetana più sconcertante, almeno per chi scrive, riguarda il contrasto tra la minuziosa descrizione anatomica e funzionale del sistema nervoso periferico e la povertà di riferimenti alle funzioni del sistema nervoso centrale. Il cervello, descritto come un grande lago da cui originano i nervi, non viene annoverato tra gli organi; i processi cognitivi vengono riferiti alle strutture sensoriali da cui partono le sensazioni che li innescano, oppure vengono riportati direttamente al superiore livello di coscienza che si identifica con la mente. Sembra mancare la nozione di uno stadio intermedio in cui avviene l'elaborazione e l'integrazione degli eventi sensoriali da cui possono avere origine eventi cognitivi e stati mentali. Viene da pensare che la medicina tibetana consideri il cervello poco più che un'estensione degli organi di senso, e certamente non ritiene che l'attività cerebrale rifletta la funzione della mente.

L'AUTRICE

Marirosa Di Stefano, neurofisiologa, professore associato a Pisa. Il suo interesse per la medicina tibetana l'ha portata ad occuparsi degli aspetti fisiologici della meditazione nell'ambito delle scienze cognitive. Per le informazioni sui principi teorico-pratici della medicina tibetana ha utilizzato le lezioni tenute all'Istituto Shang-Shung di Arcidosso dal prof. Phuntsog il cui testo "Elementi per lo studio e la comprensione della medicina tibetana" è in corso di traduzione.


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