Tibet, terra che fu di Massimo Lensi
Nel mondo ci sono simboli dalla natura strana. Imponderabili e intimi, provocano cambiamenti nella vita di ciascuno di noi. Anche quando non ce ne accorgiamo oppure non vogliamo. A volte se ne prende consapevolezza subito, altre volte dopo anni, qualche volta mai. I simboli però vanno interpretati. D’altronde cosa fare di fronte al chiodo sacro, al cubito, alla runa, al golem, all’idromele, al mandala, al makara e al linga, se non cercare di interpretare il messaggio? La parola simbolo ha subìto nel tempo importanti variazioni di significato. Si è passati in un battito di ciglia dallo studio della metafora a quello della parabola o dell’apologo.
Oggi, per fortuna, i simboli conoscono però una nuova popolarità. L’immaginazione non è più irrisa, è anzi uso quotidiano nel corso del giorno e della notte, nel nostro linguaggio, nei gesti e nei segni. E’ parente dell’ironia e dell’incrocio delle idee, smitizza il sapere accademico. Che ce ne accorgiamo o no, ognuno di noi usa i simboli, perché sono il centro, il cuore, della nostra vita immaginativa, rivelano i segreti dell’inconscio, ci conducono per mano alle fonti più nascoste, quelle che motivano le azioni e aprono lo spirito all’ignoto e all’infinito. Un viaggio interiore non privo di difficoltà e di paura. Nella mia vita, uno dei simboli di maggior importanza è stato il Tibet.
Certo, il tetto del mondo è terra reale, per alcuni versi viva e moderna, ma racchiude in sé un portato di immaginazione unico al mondo. Difatti, dal primo incontro non me ne sono più liberato. Convive placidamente nella mia libreria, nei siti Internet che contatto, negli articoli che scrivo e nella mia mente. Ora sono qui a scrivere, a cercare di raccontare questo viaggio. Un percorso a metà strada, come sempre, tra il reale, il politico (nel senso della polis) e l’immaginario. Tra Shangri-la e l’Oriente. Un racconto ad appunti sparsi che potrebbe senz’altro essere interpretato, visto che di simboli si tratta, niente più che una piccola porta della percezione.
Impressioni personali sull’Oceano di Saggezza Occhi marrone scuro filtrati da occhialini, sempre uguali o forse sempre gli stessi, stile professore miope di liceo anni ‘70, grande gesticolatore, abitué di grandi raduni, sorriso affascinante, risata accattivante, vero globe trotter dei diritti umani, essenza della compassione, Premio Nobel per la pace, “geshe” ovvero gran dottore di studi di buddismo, esperto di materie come Pramana, Madhyamika, Prajnaparamita, Abidharma e Vinaya, amante del bricolage, nemico delle buone maniere affettate, istintivo, genuino, Tenzin Gyatso, Oceano di Saggezza, Kundun, in altre parole il XIV Dalai Lama è davvero il mio forte e laico legame con il Tibet. Forse l’unico.
Un legame indissolubile, a volte ondivago, che spunta però ogni qualvolta mi capita sottomano un articolo, un libro, qualcosa che mi parli di lui. Accade. Caspita che grand’uomo, ho sempre pensato tra me e me. E pensare che ho avuto anche la fortuna di incontrarlo tre o quattro volte, per lo più a Budapest dove ho trascorso molti anni della mia vita. A Budapest, che strano, mi occupavo, pur in piccola e davvero insufficiente parte, anche di Tibet. O meglio, come si dovrebbe dire di regola, della causa tibetana. Bella emozione, quel primo incontro. Era una fredda e soleggiata giornata novembrina e mi trovavo ad attenderlo all’interno del vecchio Palasport della capitale magiara.
Me ne stavo imbacuccato come un esploratore in Groenlandia, mentre il Dalai Lama, come al solito, vestiva la sua tunica granata bordata d’oro, le braccia scoperte. Sentivo freddo solo a guardarlo. Ero appena agli inizi della mia scalata ai misteri del Tibet e quel breve incontro si rivelò fondamentale. Non aspettavo altro. Sentii, infatti, salire dentro di me quella strana passione, come un vero bruciore di stomaco, che mi avrebbe piacevolmente divorato negli anni a seguire e che mi portò ad organizzare manifestazioni, sit-in, walk around, scioperi della fame e a conoscere una serie infinita di supporter del Tibet Libero, sparsi qua e là per i cinque continenti. Come non citare Piero Verni, un caro amico allora presidente di Italia-Tibet, oppure Marcelle Roux di France-Tibet, o ancora i tanti esiliati tibetani della comunità svizzera e i Tibet Support Group di Marsiglia, Lione, Budapest, Ginevra e Bruxelles. Back.
L’incontro terminò cianciando del più e del meno, chiacchiere in libertà sul freddo, sui libri che mi suggerì, a modo suo, di leggere e sul Danubio, gran bel fiume. Alla fine ebbi nitida l’impressione che si fosse un po’confuso, scambiandomi per il classico ungherese. Glielo feci notare. Nessun problema, mi disse, ed ecco che con ritmo brioso Kundun decise di farmi conoscere prima il suo gran sorriso e poi la strizzata di occhi e il morbido dondolio del busto. Alla fine, ridacchiando alla sua maniera, mi salutò. Il buontempone.
Una nota a piè pagina: tutto il trambusto di incontri, marce e sventolio di bandierine del Tibet, nacque, in origine, più dalla mia militanza nel Partito Radicale Transnazionale che da altro. Militanza peraltro già nota ai lettori e che, benché ormai lontana, fa parte necessaria del gioco vitale dell’appartenenza, un po’ come la tela di Penelope: la notte distruggi ciò che il giorno crei, ma quella tela poi rimane nel tuo vissuto per sempre. Se a qualcosa questa militanza politica è stata utile, ecco questa è proprio la giusta occasione per far finta di niente. Tutto, vivaddio, è un gioco nel misterioso ciclo delle rinascite. Una volta fiore, un’altra papero.
Free Tibet Ma cosa significa, veramente, quel Free Tibet? Nel corso degli anni, tante volte, mi sono domandato quale sia realmente la misteriosa causa tibetana, tanto che alla fine, sconfitto, ho deciso di lasciar perdere. Come che fosse, provai il bisogno di mettermi per un po’ di tempo alla finestra. A guardare e cercare di capire. Free Tibet è per caso l’indipendenza? Oppure forse la genuina autonomia? La cosiddetta “via di mezzo”? Oppure un volemose-bbene piantato lì un po’ a casaccio nelle more dei tanti tentativi di aprire i colloqui segreti con Pechino? E’ un modo forse per ringiovanire? Una moda?
Un furore hollywoodiano? Una forma di turismo responsabile? E’intelligente? Una necessità interiore? Una conversione? E’ una battaglia politica della destra? O della sinistra? O più semplicemente è un segnale di pace rivolto ai cinesi che dal 1949 occupano il tetto del mondo e hanno spaccato in due la vita di quel popolo, mettendo da un parte i vecchi del tempo che non tornerà mai più, con le loro abitudini, cibi, bevande, cultura e nenie, i ricordi delle superbe cerimonie nel tempio del Jokhang e dall’altra le generazioni miste, un po’ tibetane un po’ cinesi, gloriate dagli orridi karaoke, dai lupanari, dagli hamburger e da tutto ciò che si rifà ai nuovi costumi e sottende il socialismo di mercato made in China.
Insomma, non sempre ho avuto chiaro in mente cosa esattamente volessero e chiedessero i tibetani, o meglio la gerarchia, il Kashag e cioè il Governo tibetano in esilio a Dharamsala, la piccola cittadina arroccata sui primi dolci versanti indiani della catena dell’Himalaya. D’altronde vorrei fosse chiaro che per me evitare qualsiasi pista buonista, no/new global o glocal, è materia non affatto secondaria: sapete, quella roba strana che condanna a prescindere la scomparsa di un’arcaica cultura a causa dell’avanzata selvaggia del Godzilla liberista. Finora lo sviluppo, perfino quello “sostenibile”, non si è mai imposto da solo né ha scelto il mostro o l’arcaico.
Dai tempi della via della Seta, dei Vichinghi e di Cristoforo Colombo fino ai grigi giorni nostri gli accadimenti sono sempre stati più complicati di quanto si vorrebbe. Potremmo dire meno lineari o intimamente collegati tra loro: sono i terreni di confine, bordati di chiaroscuro, quelli che contengono molte volte un pizzico di verità in più. Benvenute siano, quindi, le infrastrutture, i vaccini, le scuole e gli ospedali, anche in terre come quelle tibetane dove le malattie mietono vittime e le condizioni igieniche sono, per così dire, un po’ trascurate. Sia gloria al sapone e alla penicillina, perdio.
Tuttavia, capisco anche che in questo mondo la rumba dei batteri e degli anticorpi ha una sua non poco frizzante validità, e che al progresso macina-tutto si debba contrapporre per teoria di evoluzione la difesa dei vecchi valori. Alla Coca Cola di marca yankee, il tè col burro salato. A Shangri-la, la Lhasa odierna. E’ proprio vero: la “via di mezzo” è l’unica soluzione, come sempre. Eppure, ancora oggi mi stupisce, specialmente dopo i caldi giorni della guerra in Iraq, come la questione tibetana non sia quasi mai stata accolta dal popolo della pace, quello delle marce Perugia Assisi e dintorni, anzi, sia stata proprio da quel popolo molte volte beffeggiata come se, chessò, il Tibet fosse solo una faccenduola privata e riservata nonché primitiva di qualche monaco buddista variamente sclerato.
Perché, mi chiedo, ci si ostina ancora a non voler capire che non sono i modelli economici, la povertà e le malattie a far la vera differenza tra una società felice ed una disperata? Perché ancora si vuole chiudere gli occhi sulle violazioni dei diritti dell’uomo? Su questa centralità della bestia umana che altro non è che la cifra della libertà, la bestemmia cioè di scegliere il modello economico, il partito, la fede, la lingua, il lavoro che si vuole in un ampio ventaglio di possibilità. Dove tutto nasce e dove, se viene a mancare, tutto muore. Certo, a volte sono necessari interventi d’urgenza nelle aeree di povertà, di fame e di guerra, ma come sostiene l’indiano Amartya Sen, premio Nobel per l’economia, senza libertà non c’è sviluppo.
Per lui è solo con la ragione che la libertà può essere intesa in senso forte, non solo come libertà di agire, ma come libertà di conseguire la propria autorealizzazione, per liberare la nostra “immaginazione morale”. Invece con molta malafede si sventola festosi la kefia palestinese e la bandiera rossa del Che, ma mai che ci si azzardi ad indossare, almeno per una volta cribbio, la kata tibetana, la sciarpa di seta bianca offerta all’ospite in segno di benvenuto e simbolo di nonviolenza. Mai. Davvero un bel mistero questo modernismo movimentista dal sapore ideologico e dal retrogusto amaro.
Mi scusi, la strada per Shangri-la? Alla fine, un po’ deluso dalla politica, un po’ desideroso di scoprire quei luoghi affascinanti, preparai lo zaino, le scarpe da trekking e nell’autunno del 1998 mi decisi a partire alla scoperta del subcontinente indiano. Fiato alle trombe. Prima tappa: il Tibet. In questi giorni di fine ottobre ho cercato il mio diario di viaggio, un’agendina con la quale mi dedicavo al piacevole e infantile gioco della compressione dei miei pensieri: dalla libertà indiavolata della mente alla razionale messa a fuoco su carta. Una breve parte di quegli appunti la riverso qui, su L’opinione, accettando però la regola dell’antico fissaggio: ora come allora.
La tappa tibetana fu abbastanza breve, organizzata come facevano tutti a Kathmandu. Approfittando di un vento cinese allora favorevole, il Tibet si era finalmente “aperto”al turismo, dopo anni di totale chiusura causata dalle violente repressioni della polizia cinese di stanza a Lhasa contro nutriti gruppi di manifestanti, civili e in tonaca, si poteva passare docilmente la frontiera grazie alla pratica dei visti di gruppo, massimo sei persone. Presi coraggio e a 2500 metri d’altezza attraversai la frontiera sino-nepalese a Zhang Mu, sulla Friendship Highway, con cinque sconosciuti agganciati al volo grazie ai messaggi affissi sulle formidabili bacheche delle guest house nepalesi, un canadese, due australiani e due british.
Mi inoltravo col cuore in gola nella mia Shangri-la personale, un bignè di emozioni e aspettative, pagato con tanti bei dollaroni fruscianti, impilati uno sull’altro sopra il tavolo di una bieca, quanto inaffidabile agenzia turistica nepalese. Un’agenzia con “seri contatti in Cina”. Minchia, sai che roba! Insomma, una specie di conto alla rovescia con il ritorno ai danni del quotidiano. Uomo occidentale tra abominevoli omini cinesi. Il dagherrotipo dell’utopia a buon mercato. Ecco a voi alcuni brani di quel viaggio. Last: ripeto questi appunti per una sola ragione. Mi sono reso conto che le considerazioni politiche svolte allora, pur intessute da una filigrana di patente e giustificabile ingenuità, sono ahinoi tuttora valide. Cinque anni orsono i tibetani erano alle prese con l’avvio di tormentati colloqui segreti con Pechino, falliti dopo solo pochi mesi. Oggi sta accadendo lo stesso. Il sommesso pellegrinaggio si ripete.
Lamaland 1998. Knockin' on Heaven's Door Cerco di prendere subito contatto e confidenza con l’altopiano tibetano, già nei primissimi chilometri dei tanti da fare, in questo lungo viaggio verso Lhasa. Tremilaottocento metri di altitudine, debito d’ossigeno, sole implacabile, aria frizzante e rarefatta ed un cielo azzurro, intenso, quasi ingombrante. Nella jeep che mi porta alla prima locanda tibetana prenotata, per forza di cose, a Kathmandu, mi vengono in mente i volti e le voci dei tanti amici e compagni di lotta di questi ultimi quattro anni di campagne per la libertà del Tibet. Amici conosciuti e rivisti tante volte a Budapest, Bruxelles, Ginevra, Bonn e ai quali da quattro anni proponiamo il Satyagraha nonviolento mondiale come unica soluzione pacifica e veramente politica per la questione tibetana.
Ma penso anche, con una certa inquietudine, agli ultimi messaggi distensivi tra il Kashag tibetano e Pechino, alla via imboccata dal Dalai Lama verso colloqui segreti con il governo comunista di Zu. Alla fine, quindi, di una lotta nonviolenta durata quarant’anni per l’accettazione compromissoria dell’attuale status quo. Ma quale? Il viaggio è lunghissimo, stressante, tocchiamo numerose piccole città, a volte sono solo primitivi villaggi dove manca quasi tutto. Ci fermiamo a Lhatse, dove è posto il bivio per raggiungere in dieci giorni di fuoristrada il monte sacro dei tibetani, il Kailash. Dal villaggio si parte per visitare il monastero di Sakya. Poi, ripresa la strada maestra, è la volta di Shigatse, Gyantse e alla fine lei, la bella, la capitale, la città dei Dalai Lama, Lhasa.
Ma Lhasa non è più! Al suo posto i cinesi hanno costruito Lamaland, un parco giochi per turisti alla ricerca del Mistico o per facoltosi cinesi, tanti, che potranno poi testimoniare come, tutto sommato, i tibetani siano trattati con riguardo, tolleranza ed anche devozione dalle autorità della Regione autonoma del Tibet (TAR): un fantastico esempio del peggior Minculpop. A Lamaland, come in un qualsiasi parco-giochi del mondo, si paga per tutto. Mi occorrono gli yuan equivalenti ad una cena in ristorante per visitare il Potala o i monasteri di Drepung e Sera. Voglio comprare una kata, oppure un rosario tibetano, o una bandiera della preghiera?
Le trovo al mercatino del Barkhor, attorno al più sacro monastero di Lhasa e forse di tutto il Tibet, il Jokhang, ma sono made in Hong Kong o Kathmandu! Modica spesa e souvenir esotico assicurato. Ma Lamaland è anche due città in una. Quella cinese, ben illuminata e pulita, con i suoi sfavillanti negozietti-emporio quasi occidentali, gli alberghi di lusso ed i ristorantini tipici. La parte tibetana invece è esattamente l’opposto di quella cinese: mal tenuta, buia. È la Riserva, dove l’occidentale riscopre il medioevo teocratico dei grandi lama. O almeno così crede, dopo aver annusato l’odore di burro di yak di cui è intrisa ferocemente l’aria.
I giovani tibetani, vestiti con i rimasugli di qualche Rivoluzione Culturale, conoscono la propria lingua, reintrodotta a livello di insegnamento scolastico tre anni fa dalle autorità della TAR per, così penso, meglio preparare la Riserva, ed il cinese. I loro coetanei cinesi in più parlano l’inglese, si vestono con jeans e scarpette da ginnastica, ascoltano gli U2. Ma le etnie ormai si confondono sempre di più. I mezzo sangue sono la maggioranza nella comunità tibetana. Un paio di generazioni ancora e Pechino avrà ottenuto il tibetano perfetto, penso. La lenta e spassosa burocrazia dell’Immigration Office di Lhasa mi impedisce il viaggio al monte Kailash, ma riesco, nonostante l’avvicinarsi della scadenza del visto, ad effettuare qualche ulteriore escursione nei dintorni.
Il lavoro di Pechino è formidabile, perfetto. Ovunque nei dintorni di Lhasa è Lamaland. Biglietti da pagare, monaci silenti da fotografare, paesaggi da ricordare, sotto il sole dei quattro mila e l’intenso azzurro del cielo del tetto del mondo. Una organizzazione capillare che non lascia spazio ad avventure o a soluzioni di viaggio alternative. Solo e sempre Lamaland. L’ultimo giorno, mi inerpico su per le scale del Potala e inizio il lento, lunghissimo, percorso-pellegrinaggio tra le stanze del palazzo dei Dalai Lama. Il percorso deve essere rigidamente effettuato in senso orario, come vuole la tradizione, e ci si inoltra in pertugi strettissimi e scale ripidissime.
Tibetani e turisti occidentali lo percorrono correttamente mentre dalla parte opposta giungono flussi di turisti cinesi che entrano dall’uscita, per marcare la loro distanza culturale dalle superstizioni religiose dei lama, creando degli ingorghi etnico-religiosi da brivido. Il Potala, così come Lhasa, è ormai cinese e le regole le scrivono loro. A Lamaland dopo le fatiche della giornata ci si può dedicare alla spedizione di esotiche email, a rischiare qualche yuan nei casinò dei tanti alberghi internazionali e a girare per le strade illuminate della parte cinese tra bordelli, ristorantini tipici e pub. Una città pronta ad afferrare i gusti di qualsiasi turismo, che arriva con sempre maggiore intensità anche dall’interno della Cina. Le previsioni della vigilia si stanno materializzando.
Lhasa è proprio ciò che mi aspettavo: una brutta, falsa, città cinese, dove i tibetani sono stati trasformati in indiani della Riserva. Pensieri gettati al vento come le migliaia di bandiere di preghiera. E cosa racconterò di diverso da ciò che già sanno della loro terra, agli amici della comunità tibetana di Katmandhhu che mi avevano aiutato alla partenza? Che Lhasa non c’è più e che Sua Santità forse vuole chiudere quarant’anni di lotta nonviolenta per non perdere l’ultima delle battaglie: quella della reincarnazione del XV Dalai Lama. L’ultimo tassello mancante al trionfo finale di Pechino, la chiusura del problema tibetano e la conseguente glorificazione turistico-internazionale di Lamaland.
Ma anche queste sono riflessioni fugaci, deboli, ispirate più dalla rabbia per ciò che vedo che dalla ragione. Il pensiero corre al milione e mezzo di tibetani uccisi e torturati. Penso al 10 marzo 1959. Dove è nascosto tutto ciò? Nella diaspora tibetana a Dharamsala o Zurigo? A Lamaland non vi è traccia, ovviamente, di niente. Forse i turisti più attenti hanno visto la libertà del Tibet negli occhi di un bimbo aggrappato alle spalle della propria madre su per le scale del Potala o forse hanno rivissuto il 10 marzo nel cielo, unico, indimenticabile, di Lhasa la mattina presto. Forse. Ma le emozioni non sono finite. Lamaland mi offre l’ultima scarica di adrenalina turistica: il volo della Southern China Airways per Kathmandu. Un'ora e mezzo da sogno tra l'Everest e il Lhotse, sull’Himalaya, affinché al turista dubbioso scompaiano anche gli ultimi interrogativi sulle condizioni di vita degli indiani della Riserva. Viva Lamaland. E dopo un mese, con un notevole senso di liberazione, lascio il Tibet.
Pubblicità progresso No, non fraintendetemi. Non voglio inserire con chissà quale magia uno spot pubblicitario. Con la parola pubblicità intendo un'altra cosa. Un simbolo ancipite. Per di più del mondo d'oggi. I cinesi del Governo dacché il mondo è diventato villaggio globale, come si dice tra una tazza di tè e un pasticcino, i cinesi, dicevo, si sono trasformati in ottimi imbonitori. Riescono a far passare come sagge operazioni che inorridirebbero chiunque, aiutati come sono dai nuovi mezzi della tecnologia, dai satelliti alla Rete telematica. Il caso della libertà di religione è uno di questi. Pechino è riuscita a creare per il buddismo, tibetano e non, per il cristianesimo, ma anche per il confucianesimo e il taoismo, dapprima una logica, e poi una struttura di assorbimento.
Agli occhi di un qualsiasi sociologo, è evidente che la religione, a maggior ragione quella buddista tibetana, apparentemente astrusa e medievale, rappresenti un'istituzione sociale in grado di essere complice dello Stato per opprimere e incatenare la gente più che liberarla. Ed ecco quindi intervenire il sacerdozio morale dello Stato, poco importa se totalitario. Via il Panchen Lama originale, sostituito con quello artificiale cinese, via la Chiesa di Roma, bypassata dalla Chiesa Patriottica, via i taoisti, i Falun Gong, via tutti. Una sola chiesa: lo Stato, il Partito. Un vero orrore. Logica e struttura. Law and Order. Se non fosse che poi, soltanto negli ultimi mesi, oltre 4000 amministratori pubblici e alti burocrati del Partito sono fuggiti all’estero, portandosi via l’equivalente di 510 milioni di Euro. Chiusa la pubblicità.
( 1 - continua)
Massimo Lensi |